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Non ci sono monumenti a Babij Jar


Il primo aprile è morto Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. Nato nel 1932, fu poeta, fu romanziere, fu uomo contro.

Io entrai in contatto con la sua opera quasi casualmente, mentre ero impegnato nella stesura di UNDICI. Volevo descrivere il dolore, l'angoscia degli ebrei di Kiev, il campo di concentramento di Syretzky e le atrocità di Babij Jar.

Trovai quelle sensazioni, la chiave per poterle raccontare, in una sua opera, un poemetto intitolato, appunto, Babij Jar.


Che le sue parole siano una chiave per ricordarlo.


BABIJ JAR (E.A. Evtušenko)


Non ci sono monumenti a Babij Jar. C’è un dirupo scosceso, come rozza pietra tombale. E io, che tremo. Oggi io sono antico come il popolo giudeo. Oggi io mi sento un ebreo. Seguo l’esodo, attraverso l’Egitto. Crocifisso conosco l’agonia e ancora reco le stigmate dei chiodi. Oggi io sono Dreyfus. Il filisteo mi è giudice e spia. Sto nella gabbia. Sono accerchiato. Braccato, coperto di sputi, calunniato, dame agghindate in pizzi di Bruxelles trillano mi colpiscono in faccia con gli ombrellini. Oggi io sono un bambino di Belostok. A lago, gronda per tutto il suolo il sangue. Latrano i benpensanti di caffè e puzzano di vodka e di cipolla. Vibra su me il suo colpo lo stivale – su, me, impotente. Invano supplico i pogromscik. Sconciamente berciando “Dàgli al giudeo, salva la Russia!” i mercanti di grano massacrano la madre mia. O mio popolo russo so, so che tu per natura sei internazionalista. Ma quante volte, oh quante il tuo purissimo nome è stato una bandiera tra mani impure! Io so la bontà della mia terra. Ma che vergogna che, senza rossore, si siano gli antisemiti proclamati “Unione del popolo russo”! Oggi io mi sento Anna Frank limpida come un ramo in aprile. E amo. A che servono le parole? Mi basta che ci si possa guardare negli occhi, tu e io. Come poche sono le cose al mondo che ci è dato vedere, annusare! Non ci sono foglie per noi, non c’è cielo per noi. Eppure molto ancora ci è dato: teneramente abbracciarci nella camera al buio. Qui vengono? Non aver paura: è il clamore della primavera che viene. Avvicinati. Presto, dammi le labbra. Sfondano la porta? E’ soltanto il disgelo… Sopra Babij Jar non c’è che la voce delle erbe selvaggie. Severi come giudici guardano gli alberi. Qui tutto, tacendo, grida, e io mi scopro il capo e lentamente mi sento incanutire. Questo interminabile urlo senza suono sui mille e mille qui sepolti io sono. Io sono il vecchio che avete fucilato. Io sono il bambino che avete fucilato. Niente di me potrà dimenticarlo. E tuoni, tuoni l’Internazionale quando sarà sepolto l’ultimo antisemita della terra! Non ho sangue d’ebreo nelle mie vene: ma con la loro inveterata, cieca rabbia, me come ebreo odiano gli antisemiti. Per questo io sono un vero russo

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