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Quell'urlo nelle campagne di Maranello

Tratto dagli appunti per una storia a episodi dell'automobilismo italiano che vorrei scrivere da anni e, un giorno, scriverò.

Enzo Ferrari alla guida dello scheletro della 125S

12 marzo 1947. Un urlo rauco fende le campagne attorno a Maranello, rimbalza nelle prime asperità che, lungo la statale dell’Abetone, portano dalla Pianura Padana verso l’Appennino tosco-emiliano. A produrre quell’urlo è lo scheletro di un’automobile: quattro ruote, telaio nudo, un pulsante motore a dodici cilindri da 1500 cc capace di erogare 90 CV. Alla guida, un signore modenese, con alle spalle una lunga esperienza nel mondo delle corse: il suo nome era Enzo Ferrari e quello scheletro di automobile era la prima autovettura che portava il suo nome, la 125S.


L'Alfa 8C-35 della Scuderia Ferrari

Ferrari era stato un volto importante nell’eroico automobilismo degli anni ’30, quello del Gran Prix e degli assi del volante, da Varzi a Caracciola, da Borzacchini a Nuvolari. In un campionato che metteva l’una contro l’altra le rappresentative automobilistiche delle grandi potenze europee, dalla Germania nazista (Mercedes e Auto Union) alla Francia (Bugatti) fino all’Italia, Ferrari rappresentava, con la sua scuderia, l’Alfa Romeo. Sue erano le vetture condotte da Tazio Nuvolari (memorabile la vittoria al Nürburgring, a casa dei tedeschi, nel luglio del ’35), marchiate da quella firma, quel cavallino rampante su fondo giallo che brillava sulle fiancate rosse: leggenda vuole che, a donarglielo, fosse stata, a una corsa nei primi anni ’20, quando Ferrari era ancora prima di tutto un pilota, la madre del più grande aviatore italiano della Grande Guerra, Francesco Baracca.


Alla fine degli anni ’30, però, l’amore tra la casa madre milanese e la Scuderia Ferrari si era decisamente raffreddato: il modenese, infatti, si prendeva troppe libertà ed era arrivato persino a progettare da zero, con la collaborazione di tecnici di fiducia, una macchina nuova, la 158. Chiamata in seguito Alfetta, si sarebbe rivelata, insieme alla P2 degli anni ’20, una delle auto più vincenti della storia dell’Alfa e avrebbe portato alla casa del Portello anche i primi mondiali di Formula 1 della storia, nel biennio 1950-51.

L'Alfa 158, nota come "Alfetta"

Ma questa è un’altra storia. A Milano, dato che ancora non potevano sapere quante fortune avrebbe portato quel bolide, si sentirono esautorati e decisero di riassorbire la Scuderia, con auto annesse, lasciando a Ferrari la guida della squadra corse. Correva l’anno 1938, ma questo legame non era destinato a durare. Il modenese, infatti, mal sopportava di dover render conto a qualcuno delle sue decisioni e dover aspettare il permesso di un superiore.

Così, ebbe da ridire con uomini dello staff Alfa, in particolare il progettista Wilfredo Pelayo Ricart. Catalano di Barcellona, Ricart era un uomo singolare: ad esempio, era solito portare spesse suole di gomma affinché le vibrazioni del suolo, così attutite, non turbassero l’equilibrio del suo geniale cervello. Insomma, vista anche la già esplosiva situazione, sembrava messo lì apposta per esasperare Ferrari.

Goccia che fece traboccare il vaso, il progettista, dopo aver osservato la 158, la definì una vettura ormai obsoleta, buona solo per i pezzi di ricambio per automobili nuove e di concezione più moderna. Per Ferrari rappresentò un’offesa personale e portò la sua rabbia negli uffici dei dirigenti, che gli ricordarono che Milano non era Modena e lì non poteva fare il capo. Volarono gli stracci e, alla fine del burrascoso tête-à-tête, le strade si divisero. Al modenese fu posto un limite, già presente nel contratto di acquisizione della scuderia: per quattro anni non avrebbe potuto produrre auto a suo nome. Eppure, quando sbatté la porta, Ferrari tuonò che avrebbe portato in pista una sua vettura. Ricart, lì per lì, si sbagliò a definire obsoleta la 158, come avrebbero dimostrato i fatti e i risultati, ma non si può dire che il catalano, seppur tanto antipatico al vulcanico Ferrari, non avesse buone idee: nel futuro dell’Alfa, infatti, lui vedeva una vettura a dodici cilindri con motore alle spalle del pilota. Insomma, una F1 degli anni ’60, un po’ come la Ferrari 158 con cui Surtees avrebbe vinto il mondiale, piloti e costruttori, nel 1964.

L'unica Auto Avio Tipo 815 rimasta

Così, Ferrari uscì dall’Alfa nel 1939. Ufficialmente, la 125S sarebbe stata la prima Ferrari, ma non fu la prima auto di Ferrari: lasciando perdere la 158, che se è vero che fu sviluppata in seno alla Scuderia Ferrari (e Ferrari lo ribadì tutta la vita), la paternità non venne mai riconosciuta, subito dopo l’addio all’Alfa Enzo Ferrari avviò la sua avventura solista. Così come prevedeva l’accordo, il suo nome non comparve da nessuna parte, ma si nascose sotto quello di Auto Avio Costruzioni (AAC), con sede a Modena, azienda specializzata, sulla carta, nella produzione e nella rettifica di parti di velivoli. Nel mentre, però, un team ristretto, in cui spiccavano gli ingegneri Vittorio Bellentani e, soprattutto, Alberto Massimino, uomo di spicco nella FIAT degli anni ’20, quindi in Alfa e poi “ribelle” al fianco di Ferrari, si mise all’opera su un’auto da corsa pensata per la Mille Miglia, con meccanica di base FIAT ed elegantemente rivestita dalla Carrozzeria Touring di Milano. La vettura prese il nome di Tipo 815 e fu prodotta in due esemplari, al via della corsa il 28 aprile 1940. Né il team Rangoni-Nardi né quello Ascari-Minozzi giunsero però al traguardo.


Neanche un mese dopo questa prima avventura, l’Italia fascista entrò in guerra.

L’illusione di una guerra breve e facile, così come presentata dal Duce, finì presto, mentre dai vari fronti della “guerra parallela” (Grecia, Africa, Albania, Francia) giungevano notizie di morti e difficoltà. Poi, il 1943: la ritirata dalla Russia, l’arresto del Duce il 25 luglio, il governo militare di Badoglio, l’armistizio dell’8 settembre.


In cerca di maggior tranquillità in una zona torrida come l’Appennino modenese, Ferrari decise di spostare l’azienda da Modena a Maranello nel 1943, ma non scampò ai bombardamenti alleati, che la rasero al suolo l’anno successivo. Nemmeno le bombe, nemmeno le difficili mediazioni tra Ferrari e da un lato gli occupanti tedeschi e i repubblichini di Salò, dall’altra i partigiani, riuscirono però ad affievolire il sogno dell’imprenditore modenese.


Così, finita la guerra, giungeva il tempo di costruire: non solo rimettere in sesto le macerie dello stabilimento di Maranello, ma dare forma alle idee, adempiere a quell’antica promessa. Un giorno correrò con una mia macchina, disse Ferrari, sbattendo la porta in quel di Milano. Bene, quel 12 marzo la macchina era lì. Doveva il suo nome, inaugurando una tradizione che, a parte qualche illustre eccezione, dura ancora oggi a Maranello, ad aspetti tecnici legati al motore: dodici cilindri, 1500cc, cilindrata unitaria 125cc.

Una replica della 125S "Ala Spessa"

Lo scheletro della 125S corse per una dozzina di chilometri, arrivando a toccare i 150 km/h, com’ebbe modo di dire il suo pilota, celando a malapena l’emozione (si sa, il Commendatore non era uomo da queste cose), ai meccanici che, trepidanti, lo aspettavano nel piazzale della fabbrica. Un carrozziere di Modena, Giuseppe Peiretti, avrebbe coperto quei tubi con una linea barchetta e, in ricordo del passato, una livrea dipinta con il rosso cupo delle Alfa. Sarebbe stata la prima e unica Ferrari di un “altro rosso”: da lì in poi, infatti, Enzo scelse di adottare il Rosso Corsa FIAT, di una tonalità più brillante e aranciata. Pochi anni dopo tutti l’avrebbero chiamato, semplicemente, Rosso Ferrari.


Alla fine, di 125 ne costruirono due, giusto in tempo per iscriverle alla corsa prevista al circuito di Piacenza l’11 maggio: la prima, quella di Peiretti, ribattezzata Ala Spessa, fu affidata a Franco Cortese. La seconda, invece, avrebbe dovuto avere alla guida Nino Farina, pilota che, tre anni dopo, avrebbe vinto (su un Alfa 158) il primo mondiale di F1 della storia. Chiamata 125S Competizione, aveva, a differenza della sorella, una carrozzeria a sigaro con ruote scoperte (che le valse il soprannome, coniato da Ferrari, di Autobotte) e un po’ di cavalleria in più, grazie alla cura ricostituente dell’ingegnere Giuseppe Busso, che aveva portato la potenza da 90 a 120 CV. In prova, però, la Competizione ebbe problemi: Farina, nonostante il guasto fosse stato riparato, non si fidò e chiese così a Ferrari di far cambio con Cortese, dato che, oltretutto, l’Ala Spessa si presentava molto più adatta alle caratteristiche del circuito. Al diniego del capo, Farina decise di andarsene, lasciando un’unica Ferrari ai posti di blocco.


Cortese partì malissimo, ma, grazie anche alle indubbie qualità del suo destriero, si riportò presto al comando e condusse per un certo periodo la gara, prima di dare forfait per un guasto all’alimentazione. Ferrari, nel suo stile, non se la prese né si esaltò: scrisse solo che si era trattato di un promettente insuccesso. Non si sbagliava: due settimane dopo e, il 25 maggio, Cortese passò per primo sotto la bandiera a scacchi, di fronte alle Terme di Caracalla a Roma. Il primo successo di una grande epopea fatta di vittorie e momenti leggendari.


Quella, però, è un’altra storia.

La 125S di Cortese mentre affronta il Circuito di Piacenza, 11 maggio 1947

Riferimenti bibliografici:

Acerbi L., Tutto Ferrari, Giorgio Nada Editore, Vimodrone, 2015

Azzini E., Bolidi rossi & camicie nere, IBN Editore, Roma, 2011

Turrini L., Enzo Ferrari. Un eroe italiano, Mondadori, Milano, 2002

Bruni A., Clarke M., Paolini F., Sessa O., L'automobile italiana, Giunti, Milano-Firenze, 2006

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