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L'eterno presente del ricordo

Domani, settantadue anni fa, le truppe dell'Armata Rossa entravano ad Auschwitz, scoperchiando un'atrocità che nemmeno le pagine più crude della letteratura d'orrore avevano osato partorire (sebbene vi siano stati, in realtà, esempi simili in passato, spesso passati inosservati o caduti nell'oblio della Storia) e tracciando un solco profondo le percorso dell'umanità.


Chi mi conosce sa il valore che ho sempre dato alla Giornata della Memoria, non perché la data in sé, il 27 gennaio, abbia più valore degli altri giorni dell'anno, ma per il messaggio che la Giornata in sè veicola: spiegarci come ogni giorno, in un infinito presente, ci si debba ricordare del ricordo.


Due anni fa, provai a raccontare cosa fosse per me la Memoria della Shoah in quella che fu la nostra prima esperienza teatrale, Non si pagava il biglietto. Lì, dopo aver dato voce a una ragazza ebrea, una delle tante passate per il camino, e a una donna tedesca (perché quando si analizza un tema tanto complesso è indispensabile provare a osservare dai punti di vista di entrambe le parti, in questo caso le vittime e i carnefici), avevo preso la parola per ricordare tanti altri genocidi, spesso meno "mediatici", spesso meno noti, ma non per questo meno terribili, che hanno sconvolto l'umanità: l'Armenia, i Balcani, il Ruanda, solo per citarne tre avvenuti nel secolo scorso, due dei quali quand'ero già nato.


L'altr'anno, con UNDICI, avevamo affrontato il tema da un punto di vista differente, quello della Partita della Morte, episodio leggendario collocato nella lunga occupazione nazista di Kiev, tra il 1941 e il 1943, per descrivere un volto alternativo dello sterminio, quello avente come teatro il campo di Syretzky, le fosse maledette di Babij Jar.


Quest'anno abbiamo scelto di non produrre qualcosa di nuovo ma, semplicemente, riflettere. Il mondo di oggi impone riflessione, perché è un mondo dimentico di se stesso, che sta perdendo via via valori fondamentali, come la verità, come il ricordo.


Così, mentre il sangue di Aleppo, il sangue delle popolazioni assoggettate allo Stato Islamico come a regimi dai nomi molto meno noti ma ugualmente mortiferi, scorre dimenticato come acqua in un torrente, che passa e se ne va senza passato e senza futuro, la memoria crolla sotto i colpi dei clic.


No. Stop. Non si possono cancellare coi clic milioni di morti. Il "sentito dire" non può derubricare le pagine nere del passato. E il motivo è semplice. Tutto sta in quell'eterno presente del ricordo: che non significa mettere in fila date e avvenimenti, ma stabilire un fil rouge di umanità. Significa considerare le atrocità della Shoah come quelle delle colline ruandesi, quelle armene come quelle dei campi di prigionia giapponesi (vale la pena leggere qualcosa a proposito della famigerata Unità 731), quelle delle colonie belghe come la mattanza dei nativi americani e australiani e metterle su un unico grande piatto.


Per poi, da lì, alzare lo sguardo all'oggi: ci siamo ricordati di quel che è stato? Abbiamo imparato qualcosa? Abbiamo imparato qualcosa?

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