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Un ultimo volo


È inutile sottolineare quanto il senso del tragico sia acuito dall’incompiuto. Una bella storia, con un suo sviluppo, con in sé una sua favola, di quelle che spingono il lettore a seguirne i protagonisti e a innamorarsi di loro, che poi finisce drammaticamente, a un passo da quella celebrazione tanto meritata e desiderata un po’ da tutti. Sono tanti gli esempi che si possono fare: un amore finito inaspettatamente, quando ormai per tutti era diventata una realtà tanto solida da sembrare indissolubile. Un’impresa titanica, svolta contro il parere di tutti e quasi portata a termine quando, inaspettatamente, tutto crolla (chi ha visto Fitzcarraldo capisce benissimo cosa intendo).


Oppure si può prendere ad esempio quella storia che da due giorni, purtroppo, ha valicato i limiti della stampa sportiva per sedersi tra le righe della cronaca più atroce.


Lo ammetto, non conoscevo la realtà calcistica di questa squadra brasiliana, la Chapecoense, fino a ieri mattina, quando un po’ tutti ne hanno imparato il nome e la purtroppo troppo breve storia. Da amante del calcio e tifoso di una squadra accomunata da una simile, atroce, disgrazia, ovvero il Torino, ho però sentito in me la necessità di scrivere queste righe. Perché, come già avevo sostenuto un anno fa portando a termine la prima stesura di UNDICI, nel calcio, lo sport delle masse capace di radunare la folla nelle piazze o davanti a un teleschermo, risiede, dietro a miasmi di violenza o corruzione, tanta umanità.


Quella dello stato di Santa Catarina, nel Brasile meridionale, una terra quasi incastonata tra l’Oceano, l’estrema propaggine settentrionale dell’Argentina e il Paraguay. Una di quelle terre vergini meta delle grandi migrazioni che, dall’Europa ottocentesca, muovevano verso il Nuovo Mondo. Una di quelle terre che molti nostri connazionali raggiunsero per provare a riscattarsi, per lasciare il nulla in cui vivevano e trovar qualcosa per vivere. A ricordarlo, ancora oggi, le tante lingue che si parlano da quelle parti: oltre al portoghese, il tedesco, l’italiano, i dialetti veneti e lombardi. A ricordarlo, ancora oggi esiste una città chiamata Nova Trento, la cui bandiera verde, bianca e rossa ricorda davvero tanto la nostra.


Questo è il sostrato storico e culturale che vide la nascita, nel 1973, dell’Associação Chapecoense de Futebal, a Chapecò, città dell’entroterra, a seicentotrenta chilometri dal capoluogo Florianopolis, circa duecentomila abitanti, importante polo per l’agricoltura e l’allevamento.


Una squadra, la Chapecoense, capace fin da subito d’imporsi nel campionato statale catarinense e di approdare, a cinque anni dalla fondazione, al Brasileirão, la massima serie verdeoro. Poi, una storia di alti e bassi, problemi societari e, pochi anni fa, un crac che la fece cadere, tra gli anni ’90 e primi 2000 (si parla del 2009), nell’equivalente della nostra serie D.

Poi, la risalita: serie C nel 2012, serie B l’anno successivo, serie A nel 2014, conclusa al secondo posto alle spalle di una big come il Palmeiras. Da lì, le cavalcate internazionali in Copa Sudamericana, l’equivalente, a quelle latitudini, della nostra Europa League: la prima interrotta ai quarti contro il River Plate, la seconda portata fino alla finale dopo aver superato Junior colombiano e, soprattutto, l’Independiente di Gabi Milito, il fratello del Principe. Prossimo e ultimo avversario, ultimo ostacolo prima di un successo che avrebbe finalmente suggellato questo lustro di crescita verticale, questa rinascita gloriosa dalle ceneri, sarebbe stato l’Atletico Nacional di Medellin, la squadra colombiana che, sul finir degli anni ’80, diede i natali calcistici a Renè Higuita e Andres Escobar, lo sfortunato protagonista dell’autogol che escluse la Colombia al Mondiale statunitense del ’94 e che, per quel grave dolo, venne poi ucciso in un agguato nel parcheggio di un bar della città, nota al grande pubblico anche per le vicende della mala e del narcotraffico dell’iconico boss Pablo Escobar.


Quella di Medellin sarebbe stata l’ultima tappa, ma la Chapecoense non la raggiungerà mai. La cavalcata è finita, nel più tragico dei modi, a cinquanta chilometri dall’aeroporto, in mezzo ai boschi e alla nebbia, confusa nelle lamiere contorte di un aeroplano che la squadra, in realtà, non avrebbe nemmeno dovuto prendere. Inizialmente, infatti, i brasiliani avrebbero dovuto raggiungere la Colombia con un charter, ma il velivolo non aveva ricevuto dalle autorità aeroportuali l’autorizzazione necessaria.


La cronaca della tragedia la conosciamo tutti, purtroppo: settantuno le vittime, su settantasette passeggeri ospitati dal volo.


Una tragedia che accomuna i verdebianchi di Chapecò ad altre squadre della storia del pallone: il Grande Torino degli Invincibili conobbe il proprio destino di ritorno da Lisbona, contro il colle di Superga, il 4 maggio 1949.

Otto giocatori e tre membri dello staff del Manchester United morirono invece a Monaco di Baviera il 6 febbraio del ’58, quando l’aereo che li doveva riportare a casa si schiantò al terzo tentativo di decollo su una pista resa difficilmente praticabile dalla neve.

L’11 agosto 1979 lo scontro tra due aerei in volo nei cieli d’Ucraina costò la vita, tra le centosettantotto vittime, a diciassette giocatori della squadra uzbeka del Paxtakor.

Era invece l’8 dicembre 1987 quando un charter della Marina de Guerra peruviana portò con sé nell’Oceano Pacifico la compagine dell’Alianza Lima, oltre ad altri diciassette passeggeri.

Quindici giocatori surinamesi che giocavano in Olanda, membri della squadra rappresentativa Colorful 11, morirono a tre chilometri dalla capitale del Suriname Paramaribo il 7 giugno di due anni dopo. Per una casualità non si trovavano su quel volo tre campioni europei con la maglia oranje, tutti nati in Suriname e membri dei Colorful 11: Ruud Gullit, Frank Rijkaard e Aron Winter. Oltre a loro doveva esserci anche il portiere dell’Ajax Stanley Menzo, che noi tifosi del Toro conosciamo bene, dato che difendeva i pali dei tulipani biancorossi nella doppia finale di UEFA del '92.

Il velivolo che trasportava la rappresentativa nazionale dello Zambia a Dakar per uno Zambia-Senegal valevole per le qualificazioni alla Coppa d’Africa 1994 s’inabissò poi mezzo chilometro al largo di Libreville, in Gabon, il 27 aprile 1993.


Una triste e lunga catena di eventi atroci.


Questa tragedia ha portato via una squadra, nel vero senso del termine. Un team al cui interno non c’erano fenomeni di quelli che fanno palpitare le sessioni del grande mercato europeo, e basta leggere la rosa per accorgersene. Tutti brasiliani, tranne l’argentino numero 10, meteora del Villareal, Alejandro Martinuccio. Alcuni giovanissimi, altri entrati qualche anno fa nel “calcio che conta”, quello europeo, dalla porta di servizio. Per uscirne rapidamente, senza lasciar rimpianti, e tornare a Chapecò e ripartire.


Il centrocampista Cleber Santana, ad esempio, aveva giocato in Spagna, tra Atletico Madrid e Maiorca, qualche anno fa, lasciando un’ottantina di presenze complessive e sei gol.

L’attaccante Bruno Rangel, invece, dopo una discreta carriera brasiliana, aveva tentato una carta all’estero nel ricco campionato qatariota, all’Al-Arabi di Doha, la cui maglia rossa era stata vestita, in finir di carriera, anche da Gabriel Batistuta.

Il tecnico Caio Junior, alchimista dell’ascesa della squadra dai bassifondi ai vertici del calcio brasiliano, si era formato anche sulla panchina delle big di casa: i rossoneri carioca del Flamengo, i bianconeri del Botafogo, i verdi paulisti del Palmeiras, gli “italiani”, quella squadra fondata dopo una lontana tournée compiuta da Torino e Pro Vercelli in terra brasileira nel 1914, tournée della quale, presto, vorrei parlare in modo molto più approfondito.

Filipe Machado, trentadue anni, terzino, era passato anche dalle nostre parti, vestendo la maglia granata della Salernitana nella stagione 2009-2010.


Tante storie, che hanno lasciato posto al ricordo, al dolore, al rimpianto. Oppure al racconto di chi ce l’ha fatta, seppur con conseguenze gravissime: i tre sopravvissuti allo schianto, il terzino Alan Ruschel, il difensore Helio Zampier Neto e il secondo portiere Jackson Follman versano in condizioni disperate. Un quarto superstite, l’estremo difensore titolare Danilo, è morto in ospedale. Altri nove su quell’aereo non sono saliti, per infortuni, scelte tecniche, o casualità, come il giovane Matheus Saroli, che semplicemente aveva dimenticato a casa il passaporto, e probabilmente ha salutato la comitiva accompagnato da un rimprovero e, come sempre capita in queste situazioni, dalle risate dei compagni che se ne sono andati lasciandolo al palo dietro i metaldetector del check-in.


Non voglio qui tracciar la biografia di tutti, né chiedermi cosa possa passare nella testa di chi è rimasto, nei superstiti, nei familiari. Voglio pensarla da tifoso di una squadra che ancora oggi vive nell’aura costante di quanto successo in quel piovoso 4 maggio 1949. Una squadra che ancora oggi porta il peso indissolubile di quella grandezza. Ancora oggi, ogni tifoso del Toro si chiede cosa sarebbe stato senza Superga. Ancora oggi, alla fine di ogni partita, ogni tifoso del Toro rivolge lo sguardo al colle di Superga e al cielo, dove sono gli Invincibili: i simboli di quel passato glorioso al quale ognuno di noi vorrebbe, prima o poi, tornare.


Cos’accadrà adesso a quel che rimane della Chapecoense? Di certo il nome sopravvivrà e quel che resta della squadra proverà a rialzarsi, come fece il Manchester United dopo Monaco (nel decennio successivo la squadra, oltre a numerosi altri titoli, vinse la sua prima Coppa dei Campioni), come fece il Torino, con la lunga marcia verso lo scudetto del ’76, come fece la nazionale zambiana, vincitrice a sorpresa della Coppa d’Africa 2012.

Si rialzerà con cicatrici che non si possono cancellare, ma che serviranno e saranno indispensabili per tracciare una nuova strada. Perché questa bella favola, viva fino a tre giorni fa, non può finire bruciata senza appello tra quei resti carbonizzati, in quella macchia nera in mezzo a un bosco a cinquanta chilometri da Medellin.


Quando qualcuno chiede perché mi piaccia il calcio, io rispondo così: adoro raccontare storie e il calcio sa regalare grandi storie.

In UNDICI, la leggenda dello Start mi aveva permesso di parlare delle atrocità naziste in Ucraina e, più generalmente, della contrapposizione tra occupanti e occupati e il valore della resistenza di questi ultimi.

Per realizzare qualcosa a proposito dell’eroica tournée del Torino in Sudamerica del 1914, di cui poco fa si scriveva, ho potuto leggere, dietro le vite dei protagonisti e la cronaca delle partite e dei rocamboleschi spostamenti, il dramma immenso delle grandi migrazioni dall’Europa e, più nel dettaglio, anche dalla nostra terra piemontese.

Così come l’avventura dello Start e l’odissea di quel giovane Torino, la tragedia della Chapecoense racconta una storia: quella di una squadra “di periferia”, caduta fino a toccare il fondo e, da lì, capace di risalire, di crescere, di arrivare laddove, solo pochi anni fa, sembrava impensabile. Fino a vedere all’orizzonte l’ultima tappa.


È di ieri la notizia che l’Atletico Nacional di Medellin ha chiesto di assegnare il premio a quegli avversari che non hanno potuto affrontare: nessuno saprà mai come sarebbe finita, se la favola si sarebbe realizzata o infranta sul campo. Chissà, forse il prossimo anno avremmo visto una Chapecoense in vetta al Brasileirão, e poi alla Copa Libertadores. Addirittura, un giorno l’avremmo persino potuta trovare su canali per noi più seguiti, a giocarsi il Mondiale per Club con qualche superpotenza europea.

Il pensiero ora, però, deve andare a chi resta, nel ricordo di chi non c’è più: perché nulla è più difficile di rialzar la testa. Ma, come insegna l’epica, niente è più grande, dopo averla rialzata, di poter guardare indietro ed esclamare: “Ce l’abbiamo fatta!”


Da un tifoso del Toro, força Chape!


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