Mi trovavo in un ambiente buio, inquietante, ma nello stesso tempo anche familiare. Mi muovevo lentamente. L’oscurità era profonda. Le mie mani toccavano una parete che non finiva mai; in altri film, in sogni come questo, mi liberavo volando via, ma adesso, chissà, un po’ più vecchio, un po’ più pesante, facevo una gran fatica a sollevarmi da terra. Alla fine, ci riuscivo e mi trovavo librato a grandissima altezza. Il paesaggio che vedevo tra squarci di nubi laggiù in fondo, cos’era? La città universitaria, il policlinico? Sembrava un reclusorio, un rifugio antiatomico.
Alla fine, lo riconoscevo: era Cinecittà.
Queste sono parole di uno dei più grandi nomi della storia del cinema italiano, ovvero Federico Fellini.
In Fellini, Cinecittà, nel centenario della nascita del regista, Alberto Borgatta immagina
di vestire i suoi panni e di camminare con lui nel suo Cinema.
Il rapporto con Cinecittà, laddove nacque la maggior parte dei suoi capolavori, quello con gli attori e i tanti personaggi che affollavano la casa del Cinema italiano, quello con la Settima Arte in generale, in cui “nulla si sa e tutto si immagina”.