Ricordi di rally
- AB.Fabbrica Creativa
- 4 apr 2017
- Tempo di lettura: 7 min

Facebook ogni tanto sa essere spietato. Così, dal nulla, vieni a sapere in modo freddo, impersonale, da un semplice link, che Beppe Volta è morto.
A tanti, forse, questo nome non dirà molto. Ma a me, come a tanti altri che, come me, sono appassionati di rally, porta alla memoria turbini di fuoco che escono dagli scarichi di bolidi romantici e mostruosi, marchiati Lancia e avvolti in livree bianche, rosse, azzurre e nere. Macchine che, come citava Andy stamattina, probabilmente senza di lui avremmo visto solo in fotografia e forse neanche.
Se chiederete allora perché le righe seguono, almeno all'apparenza, con questo nome non hanno niente a che vedere... be', le scrivo perché, nel momento in cui Facebook mi ha dato quella fredda, impersonale notizia, la mia mente ha aperto un libro di ricordi. Mi ha ricordato perché quel nome mi era ben noto, mi ha ricordato perché conosco i rally e ne rispetto la storia come, da storico, posso rispettare quella di un momento politico o di un'era geologica. Mi ha spinto ad affrontare un tema del quale, finora, non avevo mai voluto, o potuto, forse, scrivere.
Scena prima. Pioggia. O forse no, poi è uscito il sole. Non ricordo, è tutto confuso, ma è normale. I ricordi sono confusi quando si hanno tre, quattro anni al massimo. A quell'età si ragiona coi flash, non si riesce ancora a dare un senso logico alle cose.
Nel primo flash, vedo gli ombrelli, quindi piove. L'asfalto è viscido: poco fa, una Renault 5 Turbo, non un'Alpine, ma quella cicciona, seconda serie, una R5 Turbo che la mia mente disegna grigia, ha perso il controllo e, dopo aver tagliato solennemente la curva finendo nel prato, ha faticato un bel po' per risalire la china e tornare sull'asfalto facendosi strada nell'erba bagnata.
Poi, eccola: la 205 bianca arriva, velocissima. Fin troppo, penso, quando la vedo salire con due ruote sulla riva di terra. E invece no: non rallenta, anzi, sfrutta la spinta, ritorna in strada e sparisce dietro la curva. «Ero secondo assoluto alla fine della tappa...». Ce l'avresti raccontato fino alla fine.
Poi, gli altri flash sono meno nitidi. Vedo un acquario pieno di piranha, in un ristorante a Bruino. Probabilmente la sera dopo la gara. Poi vedo me stesso, all'arrivo. La 205 bianca ha addosso un po' di cicatrici: il portellone posteriore è incastrato nel vano del baule, in mezzo ai roll-bar. Una quercia, racconti. Mi fai salire, mi metto al volante sulle tue gambe, con stretto nelle mani il volante con la corona di alcantara nera.
Passano gli anni. Probabilmente mancano dei tasselli... è un po' come sfogliare un libro vecchio e consumato, dal quale le pagine, negli anni si sono staccate, del quale si ricordano le sensazioni, ma si dimenticano volti e passaggi. Volti...
Scena seconda. Sole, mi sembra. Siamo a Caprie, sul piazzale di fronte ai palazzoni di Viale Kennedy. Oggi c'è una palestra di roccia lì, ma allora avevano piazzato il parco chiuso del Rally Città di Torino. 1996? '97? Siamo lì a salutare un tuo amico, Maier. Sarebbe morto di un brutto male appena un paio di anni dopo. Ma lì sul piazzale baciato dal sole è accanto a una Peugeot 309. Con lui c'è Roby, che era il tuo navigatore: Bea aveva una cotta persa per lui da piccola, di quelle cotte che si hanno a due, tre anni.
Passa qualche ora, e siamo al solito posto all'ombra degli alberi, ad aspettare le macchine. Che delusione quando arriva l'ufficiale di gara a comunicare l'annullamento della tappa: l'apripista era volata in un fosso e, come a tenerle compagnia, il carro attrezzi l'aveva seguita durante il recupero.
Passano altri anni. Un po' di anni. Io cresco, mentre le auto entrano nel mio cuore. Cambio approccio: mi butto sui libri. Studio la storia: dei rally, della Formula 1, dell'automobilismo in generale. Coltivo il sogno di diventare un designer e riempio quaderni e taccuini di idee e fantasie.
Scena terza: un ristorante. Sera, undici e mezza, mezzanotte. L'accento della proprietaria, che ci sta chiedendo i caffè, suggerisce il dato geografico: terra emiliana. Bologna, Dicembre. Motor Show. Fuori, una leggera pioggerellina. Quel locale l'aveva consigliato il tassista che, dalla stazione, ci aveva scarrozzati all'albergo. Un ristorantino tipico, in una viuzza appena dietro le torri. Siamo io, te, Cecco, Andy e Matteo. Sul tavolo, solo qualche bottiglia vuota e i tovaglioli alla rinfusa. Era una tua regola: dove si corre, è essenziale sapere dove andare a mangiare. Non esisteva aneddoto rallystico che non cominciasse con le gambe sotto a un tavolo. Che si stesse parlando di Sanremo, di Acropoli, di Mille Laghi, di Sardegna o di Montecarlo. Avevi la tua mappa, una rete di punti di ristoro che partiva dalla Valle d'Aosta e s'inerpicava fino ai colli di Liguria e Veneto, che allungava le sue propaggini fino alla spaziale chianina che ci avevi fatto assaggiare a Serravalle Pistoiese.
Quanto abbiamo mangiato, in quella piovosa sera bolognese, in quella tappa intermedia tra il giro salonistico del sabato, quello tranquillo, e quello domenicale, più caotico. Ci siamo abbuffati al punto che l'ostessa, appena preso l'ordine, preferisce dirottare al nostro tavolo i quattro caffè (Cecco sia mai che prenda un caffè) destinati al tavolo vicino, che pure gli ha ordinati prima. Ma si sa, i buoni clienti meglio non farli aspettare...
Scena quarta. Pioggia. Quanto piove. La strada che scende alla speciale attraversando il secondo parco chiuso è un torrente. L'umidità ha chiamato pure a raccolta le rane: le uova si son schiuse, e ovunque ranocchietti appena nati saltano, cercando di non farsi schiacciare, tra i piedi degli spettatori e quelli dei meccanici che coprono le auto in attesa del turno.
Come piove per noi, piove per i piloti: quello sulla Ferrari F430 Challenge preparata da salita, ad esempio, affronta la Susa Moncenisio come potrebbe farlo un camper francese in un placido giorno di luglio.
La 205 bianca, invece, sotto la pioggia è sempre una ragazzina. Da quell'ultima volta, ne sono passati di anni, ma non sembra a vedersi. Il baule era rimasto sciancato dal pomeriggio della quercia, e la macchina aveva atteso il suo momento, coperta dalla polvere, nel garage di fianco al magazzino della farmacia. Adesso, però, dopo l'attenta cura ricostituente (chiamiamola pure restauro), la belva era tornata a ruggire. Sull'acqua, dove piano non era mai andata. Infatti, secondo di categoria, primo assoluto nel raggruppamento specifico.
Noi c'eravamo: Io, Cecco, Andy, Marco. L'ultimo rally.
Scena quinta. La Loggia. No, così la chiamavamo noi, perché per arrivare lì uscivamo all'uscita "La Loggia" della tangenziale sud: in realtà, Barauda, frazione di Moncalieri. Club des Miles: la pista dove siamo cresciuti, in un certo senso. Lì disputai la mia prima (e unica) gara in kart, prima di rischiare di ammazzarmi, sempre in kart, qualche mese dopo. Lì, Cecco iniziò a masticare l'asfalto, prima di andare a fare le gare del campionato UISP col 60, prima di vincere il regionale con il 100 Junior, prima delle esperienze nel mondiale KF2 e della Formula Renault. Non voglio parlare di questo capitolo... in fondo, non è la mia storia.
La scena è ambientata in un momento specifico: Campioni per un giorno, Memorial Marco Bonetto. Non la prima, ma la seconda edizione. La prima era stata una sorta di banco di prova. Ma l'anno dopo, la pista è un brulicante parcheggio. Auto ovunque, piloti giunti dal rally, dalla pista, dal drift per far provare ai tanti piccoli eroi dei reparti oncologici pediatrici l'ebbrezza dei motori. Fa caldissimo, e tu me lo ricordi ogni volta che t'incrocio. Uno stock di magliette bianche, finito! Tutte finite, trasparenti da quanto c'hai sudato dentro! Tutte tranne una, quella che hai tenuto da parte per l'intervista alla Rai. Eri commosso. Lo eravamo tutti.
Finale. Sole. Caldo, com'è normale a luglio. Molinette. Io e Cecco nemmeno due ore fa eravamo a Cesana. C'era la corsa, la Cesana-Sestriere. Come se non bastasse, con annesso il memorial Lancia Martini (eh, il nome Volta si leggeva spesso da quelle parti...). Cecco aveva scattato tante foto quel pomeriggio. Se gli altri momenti li rivivo, questo mi sembra di osservarlo da lontano: ti raccontavamo chi c'era, chi avresti potuto conoscere, salutare. C'era Catania, con la Delta integrale, ad esempio, o Nino, con il parco auto dell'Abarth. Non so se ci ascoltavi ancora. Mi piace pensare di sì, che fossi ancora lì con noi. Che ancora una volta, anche per l'ultima volta, noi due si sia parlato di questa grande, comune ossessione.
A luglio fanno quattro anni. Ma ci pensi? Quattro anni che sembrano nulla e sembrano infiniti. Ci puoi credere che io non ci creda ancora? Be', ci puoi credere, se pensi che per scrivere 'ste due righe, per trovare le parole, ci ho impiegato così tanto. Lì per lì, ti scrissi una lettera e te la misi in tasca. Certo, non che tu fossi un gran lettore, ma magari nella noia l'hai anche trovata la voglia di leggerla. Speravo ti avrebbe tenuto compagnia. Stavo tanto male che non ricordo, sinceramente, cosa ti scrissi. Quei giorni sono un po' confusi nella mia testa. Non penso che parlai di rally e di macchine.
Il nostro mondo sarebbe cambiato, senza rimedio. Sconvolto, ridisegnato dalle fondamenta. Ho provato a risollevarmi inseguendo un nuovo sogno, fatto di musica, racconti e parole. Però, quando cammino per strada, basta un rombo d'automobile un po' diverso per farmi girar la testa e cercar di capire da dove provenga. Basta un foglio bianco a farmici pasticciar sopra quattro ruote e un profilo sportivo.
Penso tanto. Penso a tante cose, alcune anche brutte, magari, che vorrei dirti di persona. Penso che non so se avresti apprezzato o meno le cose che stiamo facendo ora e che non hai avuto il tempo di conoscere. Penso che mi sarebbe piaciuto presentarti Rossana. Penso che mi piacerebbe tanto fare ancora una passeggiata di quelle che facevamo per fare la pace, dopo una delle nostre tante, stupide litigate.
Penso che ti avrei raccontato di quel che è successo a Volta, dell'ironia sadica della sorte che sull'asfalto toglie la vita a qualcuno che ai motori aveva dedicato la propria esistenza. Penso che ci saresti stato male, vedendo un altro dei tanti nomi di questa storia cadere, come le pagine di quel vecchio libro.
Poi, chiudo gli occhi. Immagino di guardare un cielo d'immagini e farmi largo tra le sue stelle. Per trovarti, come scrisse Cecco in una di quelle frasi che sarebbe piaciuto scrivere a me, ancora una volta lì, a farmi l'occhiolino.
Te l'ho mai detto che mi manchi?